IO HO VISTO SOLO LA FINE / I ONLY SAW THE ENDING [2021]
un happening come lettura di Howl di Ginsberg
a happening about reading Ginsberg’s HOWL
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IO HO VISTO SOLO LA FINE (d’après Allen Ginsberg)
rottami di lettura di HOWL attraverso Jackson Pollock, Gina Pane, Ferruccio De Filippi
Un happening ideato e prodotto da Pasquale Polidori. Con azioni di Giovanna Fiacco, Naoya Takahara, Michele Zaffarano, Tianyi Xu, Chiara Vignandel, Salvatore Zoncheddu, Alberto D’Amico, Mariella Bolzoni e Pasquale Polidori. Grazie a Federica Luzzi per il lavoro fotografico.
Studio Campo Boario, Roma 28 ottobre 2021 dalle 16:30 alle 20:30
Antifona Pollock bianco Jackson Pollock : Giovanna Fiacco § primo rottame misurazione delle espressioni lineari misurante : Naoya Takahara § secondo rottame un libro è un esempio di pianta di geranio [rimessa in atto di : Ferruccio De Filippi (cultura II, 1972)] innaffiante : Mariella Bolzoni § terzo rottame una separazione di x da y è indispensabile alla poesia [inabissamento di : Ferruccio De Filippi (cultura I, 1972) + azione di riempimento di una frase bucata a opera di Michele Zaffarano] separato, come se leggente : Michele Zaffarano § quarto rottame solidificazione delle azioni dei santi (verbi che ci dicono che cosa essi facevano) lettrice di perline : Tianyi Xu § quinto rottame il corpo al suo posto e l’immagine del corpo al posto del corpo al suo posto [manipolazione di : Gina Pane (Il linguaggio del corpo è un fatto sociologico, 1974, testo)] corpo : Pasquale Polidori società : Tianyi Xu § rallentamento linguistico disegno : unico modo per rallentare la caduta dello sguardo sulle cose rallentanti : Chiara Vignandel e Salvatore Zoncheddu § prologo come parlare essendo investiti da un vento di polvere e pezzi di ogni cosa parlante : Alberto D’Amico
Io ho visto solo la fine è una lettura di URLO in forma di happening, dove il testo di Ginsberg è restituito mediante l’accadere contemporaneo di un insieme di azioni concentrate nello stesso luogo, lo Studio Campo Boario a Roma e le strade nei dintorni. Queste azioni, di cui URLO è un perimetro non sempre oggettuale, funzionano come attraversamenti del poema che, fin dal suo apparire, si è posto come un dato materiale e spaziale, costruito sull’unità di misura del respiro e sulla sua forzatura, ossia la ricorsiva messa alla prova della tenuta plastica della voce: la voce di Ginsberg che, il 7 ottobre 1955 nella Six Gallery a San Francisco, estatico e al limite della verbigerazione, rovescia il dentro-fuori di corpo e delirio, tenuti insieme da ossessivi nodi anaforici, che sono l’appiglio sintattico di una oralità che rischia ripetutamente la deriva dei significati, lo smarrimento del punto, nelle frasi lunghe che compongono il poema e nelle quali è densissima la concettualizzazione delle singole parole. Da sempre, quando si parla di URLO, se ne sottolinea il carattere di denuncia nei confronti della realtà politica, sociale ed economica americana: nel processo che seguì alla pubblicazione del libro, per respingere l’accusa di oscenità la difesa userà l’argomento secondo cui URLO esprime realisticamente il patimento dei derelitti; in altri termini, oscena è la vita di chi è fatto fuori dal sistema, non il linguaggio che naturalisticamente riflette questa ultra-marginalità. Oltre il ragionevole margine linguistico-sociale, non è più il caso di cercare una ragionevolezza dell’espressione. Per questo URLO esprime certo una denuncia contro la realtà, ma lo fa abbandonando la realtà e estromettendola al discorso, più che riflettendola; nel discorso-URLO c’è una ricercata costruzione di immagini difficili da mettere a fuoco con gli strumenti di un pensiero moralizzatore, che intende cioè perseguire il fine di comprendere. Si ha più l’impressione che l’unica comprensione possibile sia non la chiusura del punto, l’abbraccio del senso (comune), bensì lo spalancamento del discorso alle sue paradossalità, anche musicali. È il corpo di Ginsberg che, attraverso la voce ed euforicamente, si assume poi il compito di dimostrare possibile una tale estrema elasticità del voler dire, senza che esso arrivi mai a rompersi del tutto.
Tous ceux qui ont des points de repère dans l’esprit, je veux dire d’un certain côté de la tête, sur des emplacements bien localisés de leur cerveau, tous ceux qui sont maîtres de leur langue, tous ceux pour qui les mots ont un sens, tous ceux pour qui il existe des altitudes dans l’âme, et des courants dans la pensée, ceux qui sont esprit de l’époque, et qui ont nommé ces courants de pensée, je pense à leurs besognes précises, et à ce grincement d’automate que rend à tous vents leur esprit,
— sont des cochons.
I significati, la traduzione, l’interpretazione non vengono per primi: c’è questo limite, questo bordo, questo contorno, questa estremità, questo piano di esposizione, questo colore-soggetto locale che può contrarsi, concentrarsi, tendere all’inestensione di un punto, di un centro di sé e, contemporaneamente, distendersi, estendersi, essere attraversato da passaggi, da partizioni. Soltanto questo chiude o apre lo spazio per le «interpretazioni». [J. L. Nancy, Corpus]
Le azioni che compongono Io ho visto solo la fine ricercano un dialogo con la materialità di URLO, nelle sue molteplici estensioni. Se un pianoforte stabilisce un ritmo totalmente disarmonico ai gesti pittorici di Giovanna Fiacco/Jackson Pollock, che assomigliano a quelle cadenze febbricitanti di URLO che ci sono più familiari, è per suscitarvi una natura finora forse poco considerata, magari un’estrema dolcezza. Se per le strade del quartiere passa una macchina che dall’altoparlante diffonde una litania concettuale ricavata dagli scritti di Gina Pane sul corpo sociale e linguistico (si tratta di una scelta di parole/concetti occorrenti nel testo di Pane liberamente manipolate e riutilizzate in una litania di frasi-slogan), è per ricordarci che URLO appartiene alla tradizione, non certo solo novecentesca, delle scoperture dolorose della ragione simbolica e politica sulla pelle individuale. Se si domanda a Naoya Takahara di prendere le misure tipometriche di una quantità inverosimile di fogli sui quali URLO si trova stampata a diversi corpi di carattere, non è solo perché la stampa del libro fu oggetto di denuncia, e relativo processo con analisi minuziosa e maniacale delle parole scelte dal poeta; ma è anche perché rintracciare una precisa metrica per URLO è un’impresa non priva di motivi idealistici, come a posteriori ricostruire la partitura per un’improvvisazione jazz, nel desiderio di ripeterla esattamente come fu, come doveva essere stata al momento in cui fu. E nella (falsa?) credenza che URLO sia stato un impulsivo, contrappuntistico rispondere della lingua al richiamo violento di qualcosa, spesso indicato nella perdita di orientamento generazionale, o un trauma storico e sociale. Le ragioni della denuncia e successivo processo contro Ferlinghetti si comprendono se pensiamo a URLO come un oggetto che, mentre nella forma vuole assomigliare alla musica jazz, di cui insegue libertà e sensualità nel fraseggio e l’emancipazione linguistica (spirituale) dalle forme classiche, nel contenuto inscena il cortocircuito culturale, dai devastanti effetti esistenziali, di una generazione di bianchi di classe media «fottuta» dall’aver usato il pensiero, studiato nelle università, essersi fatta una coscienza politica.
La lettura di URLO che si intende praticare risponde poi alla volontà di mostrare quanto URLO sia onestamente impraticabile, come un terreno ridotto male da una storia di continui transiti, e ormai completamente fuori (della sua) figura (originale), come del resto accade a tutti gli oggetti di culto. Oggetto reso antico, la cui contemporaneità è finita; misterioso e irriconoscibile. Oggetto che sopravvive nelle icone e nei simboli, e che per questo è trapassato da un’esistenza verbale a un’esistenza pittorica: la visione presentita dei suoi significati essendo esposta già nell’anti-lettura (anticamera della lettura e negazione della lettura). Da cui il fatto che Jackson Pollock — qui messo in atto da Giovanna Fiacco — dovendo essere lui il padre più prossimo di quella convulsa danza di fantasmi dell’inconscio che è URLO, in un vizio di storia gli si rivela in realtà figlio futuro. E da qui anche altre due azioni incluse in Io ho visto solo la fine, che riadattano altrettante opere di Ferruccio De Filippi, Cultura I e Cultura II, entrambe del 1972. In esse l’artista proponeva dei modi allegorici dell’atto di leggere, segnati da intransitività e trattenuti nella pura possibilità di essere o essere già stati. In Cultura II, la lettura di L’archeologia del sapere di Foucault, si tramutava nell’atto di innaffiare un geranio, mentre il libro era tenuto dall’artista legato dietro la nuca, azzerato nella sua ovvia funzione pratica, ma caricato di peso e magnetismo, come l’oggetto di un rito domestico e illogico. In Cultura I, le due scritte QUANDO LEGGO È COME SE LEGGESSI e LEGGI CHE QUANDO LEGGO È COME SE LEGGESSI erano stampate ciascuna sul primo di un blocco di fogli chiusi inaccessibili tra due lastre di vetro.
La presenza del poeta Michele Zaffarano, attivamente coinvolto nell’inabissamento di Cultura I, già per il significato della sua propria scrittura sta ad indicare la via eventuale di una riassunzione di URLO nell’ordine di una potenzialità linguistica essenzialmente votata all’inceppamento, e agli effetti taglienti della forma su sé stessa, al suo minimo muoversi e trasformarsi. Affermare che il discorso-URLO possa annullarsi nelle giunture più intime della sintassi — giacché questo sembra accadere alla lingua, nella poesia di Zaffarano — può apparirci un controsenso, dati gli effetti grandemente drammatici dei sostantivi e la vorticosità dei gerundi, nei quali si liquida la materia esistenziale, nel suo pieno volume e senza resistenze. Ma tale magma è come petrolio: di origine minerale, plasmatosi per desiderio di naturalismo alle espressioni più iperboliche e divenuto plastica testuale che ha la qualità di respingere interpretazioni e parafrasi, potrà sempre subire il destino delle perline colorate, che è quello di abdicare a ogni valore che non sia la fine dell’inganno della soggettività del significato. Trasposta in metri e metri di collanine colorate, e letta colore per colore da Tianyi Xu, URLO finalmente approda a quella utopia dadaista da cui sarebbe a suo tempo derivata — così recitano gli atti processuali, in particolare la parte dell’accusa — e della cui riemergenza, nella San Francisco degli anni Cinquanta, si hanno certe prove clandestine.
Non esistono registrazioni di quel primo reading alla Six Gallery. Ma HOWL ci mise così poco a diventare un caso — un caso sotto molteplici punti di vista: letterario, politico, giudiziario, generazionale e pop — che non mancheranno occasioni per documentare le performance poetiche di Ginsberg, nelle quali Howl rimarrà sempre il pezzo più importante del programma. Il 2 aprile 2021 Omnivore Recordings ha pubblicato quella che sembra essere la prima registrazione di una esecuzione pubblica di HOWL, il 13 e 14 febbraio 1956 al Reed College di Portland, Oregon: At Reed College: The First Recorded Reading of Howl & Other Poems, anticipando così la lettura che il 18 marzo dello stesso anno Ginsberg eseguirà a Berkeley. Per molto tempo si è creduto che il primato spettasse proprio a Berkeley, dove Ginsberg quell’anno risiedeva, e la città di Berkeley ne andava talmente fiera da aver istituito lo HOWL DAY, in occasione del sessantesimo anniversario della memorabile performance. La giunta comunale, guidata dal sindaco Tom Bates, riconosce in quella lettura “one of the most important literary events of the 20th century” e assegna alla città il ruolo di culla e nutrice della libertà di espressione e di un tipo di letteratura in grado di cambiare il mondo (“birthplace and nurturer of free expression and world changing literature”). Tanta attenzione riservata alle primitive letture di HOWL — nonostante ce ne furono poi di assai più intense, come quella del maggio 1995 eseguita e registrata al Looking Glass Studios di New York con l’accompagnamento del Kronos Quartet — si spiega ovviamente con il fatto che HOWL è un oggetto di culto nella sua interezza, un intreccio di potenze che sono molte delle tensioni che strutturano il contemporaneo: la lingua (la poesia) come insofferenza per la struttura storica ed eversione delirante del presente; il corpo (la sessualità, il comportamento, l’azione) come fenomeno sociale, drammatizzantesi nel politico, nonché possibilità, per la poesia, di congiungersi al politico; la distrazione dal canone, la ricerca di affacci e nutrimenti in altri campi, che si danno per esterni all’arte (primo fra tutti, come al solito — e non senza una posa ideologica — la vita l’esperienza il marciapiede the road), e quindi l’avanguardia negativa, però fatta in America e negli anni Cinquanta; e poi, ovviamente, il definitivo (e pop) affermarsi dell’idea di generazione, come collante di destini comuni, addirittura ben più forte del legame di classe. Queste potenze di HOWL fanno la contemporaneità di HOWL e, nello stesso tempo, spingono noi al di là della leggibilità di HOWL, nell’oltre di una contemporaneità che — per quanto assurdo in parola — è finita; o rispetto alla quale noi siamo la fine, siamo i finenti.
Nei pochi rottami di lettura di URLO che compongono Io ho visto solo la fine, il poema di Ginsberg è trasmesso per rifrazione e per corruzione della sua lettera originale; come avendo abolito una prospettiva — la prospettiva che si trova manifestata nella voce leggente di Ginsberg — e al suo posto essendo rimasta una distribuzione di oggetti che in realtà, rispetto al poema, hanno rapporti e profondità variabili. Potremmo dire che questo è esattamente quanto avviene nei sogni notturni e nelle allucinazioni (in fondo HOWL è la costretta messa in forma di una allucinazione, o la fuoriuscita di senso, di senno, dal corpo, di per sé refrattario a…; Artaud, molto più che Freud), dove i profili concreti delle cose sono ciò che meno è trattenibile, l’accapo è uno scivolamento, e dove le misure di prossimità sono falsate; questo soprattutto: non sapere la forma e l’estensione dello spazio in cui qualcosa avviene; in cui la lettura di URLO avviene. Ma basta il fatto di essere noi i finenti della contemporaneità cresciuta intorno a URLO — cioè è sufficiente considerare che, posti come noi siamo al di là della voce di Ginsberg e ricevuta la voce di Ginsberg in quanto prospettiva costruita e performata del senso di URLO, noi non possiamo che costituirci liberamente come ultima spiaggia, quella indefinitamente battuta dai rottami — ed ecco che la realtà di URLO può solo apparirci nelle forme di un va e vieni di figure, tra pezzi e riflessi di pezzi di discorso, di cui noi stessi siamo fatti poiché post-contemporanei, sicché l’estrema lettura dell’happening consisterà nel rallentamento di questa fuga ad opera di Chiara Vignandel e Salvatore Zoncheddu, impegnati disegnando a trattenere, ciascuno a suo modo, le linee di quel che gli sta accadendo intorno, su una provvisoria spiaggia di URLO. Non si ristabilisce così una prospettiva del testo, però si dà al naufrago il diritto a dis-corporare l’orizzonte, per non morire ipnotizzati dalla lontananza.
Une sorte de station incompréhensible et toute droite au milieu de tout dans l’esprit.
Et n’espérez pas que je vous nomme ce tout, en combien de parties il se divise, que je vous dise son poids, que je marche, que je me mette à discuter sur ce tout, et que, discutant, je me perde et que je me mette ainsi sans le savoir à PENSER, — et qu’il s’éclaire, qu’il vive, qu’il se pare d’une multitude de mots, tous bien frottés de sens, tous divers, et capables de bien mettre au jour toutes les attitudes, toutes le nuances d’une très sensible et pénétrante pensée.
Ah ! ces états qu’on ne nomme jamais, ces situations éminentes d’âme, ah ! ces intervalles d’esprit, ah ! ces minuscules ratées qui sont le pain quotidien de mes heures, ah ! ce peuple fourmillant de données, — ce sont toujours les mêmes mots qui me servent et vraiment je n’ai pas l’air de beaucoup bouger dans ma pensée, mais j’y bouge plus que vous en réalité, barbes d’ânes, cochons pertinents, maîtres du faux verbe, trousseurs de portraits, feuilletonistes, rez–de–chaussée, herbagistes, entomologistes, plaie de ma langue.
Je vous l’ai dit, que je n’ai plus ma langue, ce n’est pas une raison pour que vous persistiez, pour que vous vous obstiniez dans la langue.
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